O le challenge o la vita. Quando un gioco non è un gioco ma un mortale inganno

La “Lip Challenge” – realizzata, con l’obiettivo di ricreare momentanee bocche dall’effetto “silicon valley”, con l’aiuto di un bicchierino di vetro da shot, poggiato intorno alla bocca, e risucchiando l’aria in esso contenuta, creando così un assurdo sottovuoto, che ha tumefatto milioni di labbra di stolti avventurieri del web – quella del mangiare un “peperoncino piccante”, la “Tid Pod Challange”, che chiedeva l’esecuzione del gesto pericolosissimo di mangiare capsule contenenti sapone per lavastoviglie e risoltasi in lunghe corse al pronto soccorso e lavande gastriche, nel tentativo di salvarsi dall’assurda decisione di prendere parte ad una simile follia di gruppo-.

Fino a giungere ai giorni nostri. La “Blue Whale” challenge, una sfida in cui i giovani sono chiamati ad affrontare cinquanta prove estreme in cinquanta giorni, ultima delle quali è il suicidio. Ogni prova, come camminare sui binari delle ferrovie, va ripresa e poi caricata sui social.

I ragazzi verrebbero contattati sui social da persone misteriose che li guidano prova dopo prova, dopo averli convinti di possedere informazioni che possono far male alla loro famiglia. La prima prova sarebbe quella di procurarsi dei tagli alle braccia e pubblicare le foto con l’hashtag #f57.

Poi c’è la challenge di “Jonathan Galindo”, la sfida lanciata sui social, da Instagram a Tik Tok, da un personaggio con indosso una maschera raffigurante Pippo di Disney, o meglio la sua trasfigurazione tanto è brutto e inquietante ed, infine, l’ultima invenzione della parte patologica del web, la “Blackout Challenge”, che consiste nel togliersi l’ossigeno con una corda o una sciarpa, legate attorno al collo. Fino a provocarsi uno svenimento.

Il tutto viene filmato o fotografato: video e immagini vengono poi postate online, sui social, per dimostrare di aver superato la sfida. Per attirare i giovani a partecipare, vengono diffuse anche delle bufale sulla challenge, come quella secondo cui farlo provochi una insolita euforia. Una sorta di “sbornia” post-challenge, che spinge i ragazzi a voler provare questa esperienza. La verità, invece, è che il soffocamento «porta a sensazioni di panico e a una perdita di conoscenza che può causare dei profondi danni neurologici», come ha spiegato a Repubblica Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano.
E se “Jonathan Galindo” è costato la vita ad un bimbo di Napoli di 11 anni, la “Blackout Challenge” è costata la vita ad una piccola di Palermo che di anni ne aveva 10.

Gli “angeli custodi della rete”, come amiamo chiamarli noi,  mi riferisco agli agenti della Polizia Postale, si stringono attorno a tutti i genitori, lanciandoci immediatamente il paracadute del vademecum di come salvare i nostri figli da quella rete che si muove col favore delle tenebre.
Ci invitano a monitorare la loro navigazione in rete e l’uso dei social, tenersi sempre aggiornati sui nuovi rischi della rete. E i primi due punti recitano “parlare ai ragazzi delle nuove sfide” che girano in rete in modo che non ne subiscano il fascino, ove ne venissero al corrente da coetanei o sui social network e “assicurarsi che abbiano chiaro quali rischi si corrono” a partecipare alle challenge online.

E come glielo spieghiamo ai nostri figli che la prateria di algoritmi sconfinata che abbiamo creato per loro, per queste “generazioni connesse”, si sta risucchiando i loro dati personali e quelli sensibili, la loro identità, la loro privacy, la loro dignità e finanche la loro vita.
Pur comprendendo l’importanza del consiglio, la sua essenzialità, la sua imprescindibilità, ci domandiamo dove troveremo il coraggio di guardarli negli occhi e raccontargli tutto questo. Metterli in guardia dall’uomo nero che noi abbiamo fatto accomodare nei loro schermi, nelle loro camerette. Spiegargli che questa etichetta dei “nativi digitali” si è rivelata in realtà un grande abbaglio, che “competenza digitale” è cosa ben diversa da “educazione digitale”, laddove la prima, spogliata della seconda, rischia di rimanere incompleta e di tralasciare il valore che potrebbe viceversa avere la cultura digitale intesa come strumento per sviluppare la piena consapevolezza del ruolo che ciascuno di noi ha nella società.

Credo sia giunto il tempo dei “genitori normativi”, affinché là dove le istituzioni, per qualche assurdo motivo, hanno permesso che la democrazia cedesse il passo all’anarchia, possiamo arrivare noi, riappropriandoci del nostro coraggio di educare. Non è il tempo del genitore permissivo e men che meno di quello delegante. Rimaniamo solo noi accanto a loro, a vigilare su di loro, perché dalla rete attingano solo il meglio, le cose belle che questa può dargli. A centellinargli il tempo di utilizzo dei device che hanno a disposizione in casa. Non cedendo al capriccio, perché non abbiamo pazienza o l’abbiamo finita, di aprirgli un profilo social, al di sotto dei 13 anni – età tra l’altro totalmente opinabile – perché in fondo “ce l’hanno tutti i miei compagni di classe”.

E nel frattempo guardiamo con fiducia all’azione del Garante della Privacy, che solo una manciata di ore fa ha disposto il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica.
Perché con questo gesto istituzionale il nostro legislatore si risvegli dal torpore dell’inerzia e colmi quel vuoto normativo che permette da anni, a chi gestisce un social, di utilizzare modalità di gestione e conservazione di dati e contenuti, nonché di tutela degli utenti minorenni, che in altri contesti, verrebbero considerati in totale spregio alle norme del nostro ordinamento.
Una cosa è certa, così non si può proseguire. Ogni bimbo che cade in quella rete senza rete di protezione rappresenta un fallimento per le nostre istituzioni e per la società intera.

    Avv. Giorgia Venerandi
Rep. Settore tutela dei minori